Leggendo e studiando mi sono resa conto che avevo una visione della “compassione” completamente distorta; non so perché ma l’ho sempre legata ad un aspetto più spirituale, quasi legato alla pietà, che non ad un qualcosa legato alla quotidianità, immagino per retaggi del passato.
Ho scoperto invece che la compassione risulta necessaria nel nostro quotidiano e che non è un qualcosa che si rivolge solo agli altri, ma che è indispensabile avere innanzitutto per sé stessi.
Vorrei provare a spiegarvi di cosa si tratta…
La compassione e la self-compassion (ovvero provare compassione verso sé stessi) sono emozioni lente, che nascono dalla nostra volontà di farci toccare dal dolore e dalla sofferenza.
Normalmente fuggiamo da queste emozioni perché abbiamo paura di cosa potrebbero farci “sentire” ed è più facile negare, piuttosto che approfondirne le cause.
Provare self-compassion significa semplicemente provare affetto e gentilezza per le proprie difficoltà.
Provare compassione significa avere un’attenzione affettuosa per le difficoltà degli altri.
La compassione, in pratica, ci aiuta a mettere il nostro dolore in “pausa” piuttosto che metterci in “fuga” da esso. È una cura che restituisce senso di appartenenza e accettazione, quella accettazione per un qualcosa che forse non vorremmo sentire, ma che è necessario lasciar fluire.
Attenzione a distinguere però se davvero necessario mettere in “pausa” il nostro sentire, perché il rischio è di combattere con uguale forza disagi piccoli e dolori grandi, mettendoci in una continua lotta per la sopravvivenza e questo ci toglierebbe energie e forze e non va bene.
C’è un’altra sostanziale distinzione che è necessario fare ed è quella tra sofferenza e dolore.
Il dolore è un’esperienza inevitabile che si accompagna ad una ferita fisica o emotiva (dolore del cambiamento, dell’invecchiamento, della malattia…)
La sofferenza è la lotta volta a combattere il dolore: non accettiamo il dolore per cui lottiamo per mandarlo via. È come se avessimo un incendio in casa e invece di spegnerlo stessimo a rimproverare noi o gli altri perché si è verificato l’incendio e intanto la casa brucia….
Questo ci porta ad una inevitabile avversione e autocritica, che non fanno altro che lavorare sulla nostra insicurezza, andando a ledere il nostro livello di autostima. Entriamo così in un circuito che ci riporta sempre nello stesso punto: se continuiamo a pensare di essere degli incapaci cadremo sempre perché incapaci di sostenerci e andare avanti. Il tutto (e qui viene il bello!!) alimentato da parenti e amici che continuano a dirci “Devi farcela!” “Datti una mossa!” “Svegliati!”, cioè esattamente quello che in quel preciso momento non riusciamo a fare.
Ecco che allora, se decidiamo di andare incontro al nostro dolore con affetto e gentilezza, si svilupperanno compassione e cura, quella cura che ci permetterà, poi, di rialzarci.
Compassione e self-compassion hanno due nemici storici: la critica e la crudeltà ed entrambi non ci aiutano a risollevarci o ad aiutare qualcuno a risollevarsi.
A tal proposito, nel rapporto a due, dare consigli, cercare di convincere l’altro a fare come diciamo noi, consolare, minimizzare, rimproverare, giudicare l’altro sono tutte azioni che non faranno altro che portare la persona di fronte a noi a cadere sempre più giù! Queste sono le basi per una comunicazione efficace.
Citando Gordon e alcuni dei suoi “12 Ostacoli alla Comunicazione”, possiamo dire che:
- Dare consigli e soluzioni: “Io al posto tuo…”, “Perché non fai così…?”, trasmettono sfiducia nella capacità dell’altro di trovare da solo una soluzione, bloccano la comunicazione, danno la sensazione che si ha fretta di concludere il discorso.
- Convincere con argomentazioni, spiegare: “Tu sbagli perché…”, “In realtà le cose non stanno così…”, induce a porsi sulla difensiva, fa sentire inadeguati e non compresi.
- Consolare, rassicurare: frasi come “Vedrai che andrà tutto bene” o “Su, non piangere!” bloccano l’espressione delle emozioni, irritano, danno la sensazione di voler tagliare corto perché siamo noi a non reggere il disagio e lo sfogo dell’altro.
- Cambiare argomento, minimizzare, fare sarcasmo: dire “Non ci pensare!”, “Basta, parliamo di cose allegre!”, “Ti preoccupi troppo”, significa svalutare ciò che l’altro prova e bloccare la comunicazione.
- Rimproverare, fare la morale: espressioni come “Per il tuo bene dovresti…”, “Non ci si comporta così!”, provocano senso di colpa, chiusura, ribellione e fanno sentire manipolati.
- Criticare, giudicare: “Sei un irresponsabile!”, “Sei un egoista”, “Non sei capace”, fanno sentire l’altro svalutato, provocano rabbia e, a lungo andare, minano l’autostima.
Questi atteggiamenti non solo bloccano la comunicazione, ma implicano un rapporto in cui una persona è in posizione di autorità sull’altra. Il messaggio sottinteso è: ‘fidati, lo io cosa devi fare’.
Se leggendo queste righe ti sembra di attuare tutti questi comportamenti, non ti preoccupare è assolutamente normale. Le barriere della comunicazione sono modi di porsi naturali che fanno parte della nostra quotidianità, non è possibile evitare completamente di utilizzarle.
E ricordiamoci soprattutto che … a meno che qualcuno non ci chieda apertamente un consiglio, dire cosa fare agli altri viene vissuto negativamente, sempre!
Sposta le dinamiche dalla collaborazione alla competizione e non è quasi mai un atteggiamento sano.
Questo per dire che, essere compassionevoli verso noi stessi, ma anche verso l’altro, è la strada giusta per aiutarci e aiutare le persone a risollevarsi.